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Articolo di Cristina Bertogna*

Qui siamo e ci raccontiamo, è il titolo della manifestazione promossa a Gorizia dall’Associazione SOS Rosa, ai primi di marzo, per festeggiare i vent’anni di lavoro come centro antiviolenza.

È stata anche l’occasione per presentare una pubblicazione che raccoglie le esperienze e le voci di tante donne che si sono rivolte al centro per porre fine alla violenza domestica. Molte donne arrivano in associazione con addosso i segni della violenza; non è solo la violenza fisica a far male, è soprattutto l’essere state defraudate della propria vita da parte di un altro individuo, di solito dal proprio compagno, l’essere diventata una sua creatura, senza una volontà propria e senza una vita propria, come se la vita di coppia fosse un addestramento all’insicurezza e all’autolimitazione.

Gli effetti sono: paura di non contare, subire il maltrattamento della sottomissione perlopiù in silenzio, credere di non aver diritti, inibizioni, insicurezze, confusione e vergogna. Ridurre una persona al silenzio significa, in effetti, ridurla all’irrilevanza, a non contare nulla.

Come trasformare tutto questo in spirito di lotta per scoprire e portare avanti le proprie idee? Come trasformare le ferite in feritoie, pertugi da attraversare, frontiere che mettono in comunicazione la vita di prima, segnata dalla certezza della disperazione, con un futuro inconoscibile ma finalmente immaginabile? Come trasformare il dolore sordo e impotente, che nasce da una resa alla violenza del partner, in un dolore vivo che diventa coscienza di sé?

Sono alcune delle domande nate dall’incontro con le donne e in grado di orientarle verso quel percorso che porta a una “vera vita” (Alain Badiou), cioè la nostra vita che comincia e che possiamo costruire, non quella predefinita da stereotipi biologici, culturali e sociali, o da obblighi familiari.

L’associazione non è solo una realtà fisica, delimitata dagli spazi e dalle attività che si svolgono al suo interno, ma è anche un contenitore emotivo e mentale fatto di tutte le relazioni che si sviluppano fra le persone che ne fanno parte e quelle che ci afferiscono, una piccola comunità dove le donne possono recuperare un senso di appartenenza, di identità e di collaborazione. Ridare loro la parola, in questo contesto, diventa un gesto politico, poiché si riprendono uno spazio pubblico (spesso negato dai partner, da una certa cultura e da una certa società) dove denunciare la violenza e rivendicare il diritto di riconoscere dignità alla propria vita, una vita che conta e che ha valore.

La violenza, dunque, produce crepe, fratture, ferite; è sempre qualcosa di traumatico, una sorta di terremoto emotivo che spezza la vita delle persone in un prima e un dopo. Da questa situazione traumatica non si esce da soli. Il sostegno sociale è il primo fattore di guarigione, ci vuole una rete di solidarietà, non generica, ma soprattutto femminile, per aiutare le donne a rimettere in campo le loro capacità e, in questo modo, a recuperare anche i propri diritti.

Uno dei rischi, per le operatrici di questi centri, è di declinare la solidarietà in un modo particolare, nel considerare le donne solo vittime e di creare, seppure in maniera inconsapevole, una barriera fra le loro vite, noi e voi. Credo invece che sia importante riconoscere che, come donne, siamo immerse nello stesso humus culturale, sociale e politico, dal quale è impossibile liberarsi senza un lavoro di discussione collettiva, senza un’autoanalisi incessante e senza quella capacità di mettere in gioco se stesse in relazioni che non sono solo d’aiuto, ma tra donne. La violenza è qualcosa che ci riguarda in prima persona. A questo proposito Ida Dominijanni dice che non è possibile aiutare in maniera efficace le donne senza mettere in discussione se stesse, non è tanto un problema di dimostrare solidarietà, rappresentandole magari in base a criteri impropri e protettivi, ma di suscitare la loro presa di coscienza e di parola. Nominare le cose per renderle reali, potersi raccontare, in quanto le parole non servono solo a comunicare ma creano sentimenti e pensieri, e, nel dialogo, danno forma ai nostri punti di vista e alla nostra identità. Ognuno di noi esprime la propria soggettività interagendo con gli altri, siamo fatti di relazioni, l’interdipendenza sociale caratterizza la vita stessa. La violenza la possiamo intendere come un attacco a questa interdipendenza e alla condizione di uguaglianza che l’interdipendenza presuppone. Nasce dove c’è disparità, una condizione di asimmetria che, seguendo la logica del potere patriarcale, diventa disuguaglianza, dove le differenze fra maschi e femmine (ma anche fra giovani e vecchi) sono codificate e simbolizzate sotto una forma gerarchica.

Credo che SoS Rosa(e i centri antiviolenza in generale) nella sua volontà e capacità di denunciare la violenza, possa aiutare le donne a immaginare e creare nuove modalità di relazione e di organizzazione della società. Penso, ad esempio, al concetto di vulnerabilità proposto da Judith Butler: la vulnerabilità non è una caratteristica soggettiva, ma è una caratteristica delle nostre vite condivise e interdipendenti, nel senso che siamo vulnerabili in relazione a una situazione, a una persona, a una struttura sociale, a qualcosa su cui facciamo affidamento e a cui siamo esposte. Siamo vulnerabili a quelle strutture ambientali e sociali che rendono possibile la nostra vita e ne siamo, quindi, responsabili attraverso le nostre scelte e le nostre azioni. A questo pensiero aggiungerei due motti: uno dell’artista Louise Bourgois, che, quando volevano riprenderla per un filmato o le facevano qualche domanda inopportuna, era solita mostrare un cartello su cui c’era scritto: Vietato intrudere, perché l’intrusione, la violenza deforma la vita. L’altro è di una scrittrice, Margaret Atwood, che ci ricorda che non si può più smentire il fatto che le donne siano persone: è finita l’epoca del “leccami i piedi o chiudi il becco”.

*psicoterapeuta

 

SoS Rosa opera a Gorizia, via Diaz 5. Tel. 0481 32954   www.sosrosagorizia.it

 


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