Non sarà che l’autonomia differenziata, più potere alle regioni, per legiferare su 23 materie, tra cui sanità, scuola, lavoro, ambiente, grandi infrastrutture, reti di energia, e più soldi da tenere nei propri bilanci per provvedere, fa a pugni con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e le sue finalità, in primo luogo transizione energetica per combattere i cambiamenti climatici e coesione/inclusione sociale, ciòè eliminare disuguaglianze tra territori nella fruizione dei diritti fondamentali e ripristinare un orizzonte credibile di pari opportunità?
E’ proprio il dubbio, per noi una certezza, che abbiamo voluto far emergere, concludendo la precedente puntata del nostro approfondimento.
L’approvazione del PNRR da parte del governo Draghi ha reso ancor più evidente la miopia del progetto di AD, se non altro se si ragiona sul piano del “sistema paese” e non su quello di ormai declinanti aree ricche e trainanti (il nord) da una parte e, dall’altra, del resto del paese che verrebbe trainato, metà del quale (il sud) è in una condizione di sottosviluppo conclamato e in peggioramento da un trentennio.
Da una parte abbiamo il 40% delle risorse, destinate al sud. 82 miliardi che, in sei anni, dovrebbero essere utilizzati per rimettere in galleggiamento le sue otto regioni, 22 milioni di abitanti, attraverso una serie di strumenti, anche amministrativi, già predisposti negli ultimi anni.
Dall’altra, vogliamo devolvere a tre regioni,20 milioni di abitanti, le più ricche per gettito fiscale, 240 miliardi l’anno, ingenti risorse economiche, per provvedere alle nuove competenze che le ulteriori forme di autonomia prevederebbero, facendo venir meno al bilancio dello stato, una cifra di varie volte superiore a quella che si vuole idonea a risollevare il sud, in presenza delle note deficienze in tema di assistenza sanitaria, sistema di asili nido, disagio, quanto a servizi, per le vaste zone interne, assoluta carenza di infrastrutture e vie di comunicazione. Problemi che riguardano non solo le regioni meridionali.
E questo è un dato di fatto. Una quasi certezza l’abbiamo anche nel fare uno sforzo di immaginazione, visti i precedenti di questi ultimi 15 anni, sull’impiego che le regioni richiedenti faranno di queste ingenti risorse che riceverebbero dall’autonomia differenziata.
Sanità sempre più privatizzata e quindi servizi sempre meno accessibili alle fasce a reddito medio e basso, sanità territoriale sempre più penalizzata (ci sovviene qualcosa di quanto sta avvenendo anche nella nostra regione?) rapporti di lavoro sempre più deregolamentati con il concreto rischio di abbandono della contrattazione nazionale, scuola regionalizzata, con insegnanti e direttori regionali dipendenti dalla regione e nessuna garanzia di trattamento economico realmente più favorevole, come dimostra l’esempio delle province autonome di Trento e Bolzano, maggior favori alle scuole paritarie, i percorsi di insegnamento stabiliti non da un regime unitario nazionale ma dai presidenti di ogni regione e dalle maggioranze politiche che li sostengono, sotto il vigile occhio di Confindustria.
E che ne sarà delle politiche, necessariamente unitarie e stabilite a livello nazionale, per la riconversione energetica, al fine di raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica,, 55% al 2030 e 100% al 2050, che il nostro paese, con l’Unione Europea, si è dato?
Perciò dovremmo lasciare nel cassetto l’autonomia differenziata permessa dall’art. 116 c. III della Costituzione e utilizzare al meglio le opportunità trasformative e di finanziamento che si aprono con il Pnrr.
Le sue previsioni devono tradursi in una strategia chiara, programmi coerenti e con una visione di sviluppo futuro, che sembrano però mancare, a dispetto di quello che veniva chiamato “governo dei migliori”.
Una domanda : perché l’Europa ci riconosce una fetta, in cifra assoluta così importante, circa un quarto del fondo europeo ripresa e resilienza, (molto meno in rapporto al prodotto interno lordo) ?
Probabilmente perché, tra i grandi paesi europei, siamo quello che sta peggio. Sono trent’anni che cresce asfitticamente o non cresce affatto, con le due grandi crisi in mezzo, 2007/08 e pandemica, i salari e quindi la domanda interna, sono al palo, ha un terzo del paese in condizioni di grave arretramento economico, infrastrutturale e di servizi, che lo pongono nella parte bassa della classifica delle macro regioni europee.
Una situazione non promettente per lo stesso futuro dell’Unione e per l’ affermazione della sua influenza sui mercati internazionali e tra i più prossimi ci sono quelli dell’area mediterranea, nordafrica e medioriente, verso cui il nostro paese può essere investito di una “missione” europea. Imprescindibile diventa lo sviluppo del sud Italia, in prospettiva area industriale e portuale di primario interesse.
Ecco però che manca la strategia chiara e la visione di cui parlavamo. A partire dalle 7 zone economiche speciali, a regime fiscale e contributivo agevolato, nel sud del nostro paese, già previste dal 2017 e mai messe in opera: Abruzzo, Campania, Calabria, zona adriatica Puglia – Molise, zona ionica Puglia – Basilicata, Sicilia orientale ed occidentale. Che c’entri qualcosa l’autonomia differenziata e la sua utopia della “locomotiva del nord”, vecchia ormai di vent’anni ?
Il “governo dei migliori” deve scegliere: o l’emersione dell’Italia, tutta insieme, attraverso la robusta cura ricostituente al sud, nello spirito dei piani europei di ripartenza e sviluppo, o la secessione dei ricchi, per ora, territoriale e di classe, in un processo dissolutivo che renderà l’unità nazionale una mera apparenza formale.
Ad oggi non pare scegliere e continua il conto alla rovescia per la fine dell’unità nazionale così come l’abbiamo conosciuta. Ha fatto sapere che le intese con le regioni richiedenti saranno perfezionate con legge entro la fine dell’anno. Nel frattempo Mariastella Gelmini, ministra per gli affari regionali e le autonomie, ha ricevuto la relazione di una commissione di saggi, che ha avuto il compito di analizzare ogni aspetto degli ulteriori spazi di autonomia che verrebbero accordati alle regioni richiedenti, in relazione alle singole 23 materie. Gli esperti hanno consigliato prudenza e l’esclusione, dalle intese con le regioni, delle materie istruzione e sanità, due bocconi grossi, forse i più grossi. Zaia, Bonaccini e Fontana non devono aver gradito.
Nel prossimo numero del Lavoratore, stringeremo il campo di osservazione sui riflessi dell’applicazione del titolo V della Costituzione nella nostra regione, il cui presidente, appoggiato da tutti i partiti, ad eccezione di Open FVG, vuole fortemente regionalizzare la scuola.