Parlando di scuola, non si può evitare un’azione involontaria, quasi un tic: descrivere un’istituzione vasta e complessa attraverso il proprio vissuto. E così fanno anche Paola Mastrocola e, in parte, suo marito Luca Ricolfi per dimostrare in un libro chi abbia causato, in Italia, quello che definiscono “Il danno scolastico” (Milano, La nave di Teseo, pagg. 270, € 19).
Poiché la risposta è nel sottotitolo (La scuola progressista come macchina della disuguaglianza), resta da seguirne la dimostrazione: gli autori ricorrono alla propria esperienza – fatta di momenti forse condivisibili, accorati o distaccati – unita a dati economico politici, formule di statistica e osservazioni sociologiche. Allo scopo – direbbe Galilei – di rendere misurabile ciò che non lo è.
Il libro giunge a completare un quadro avvilente, proprio mentre la scuola è sferzata dalle ondate della pandemia, sballottata tra lezioni a distanza e in presenza, scossa dalla critica all’alternanza scuola lavoro (specialmente dopo la recente tragedia), ferita dalle manganellate inflitte agli studenti che vogliono farsi sentire (mentre presidi e politici si sperticano in inviti alla partecipazione e all’ascolto dei giovani) e sorpresa dal ripristino dell’esame di maturità tradizionale, spacciato – come il rientro del pubblico a Sanremo – per un vagheggiato ritorno alla normalità.
Fatto sta che Ricolfi prova a dimostrare matematicamente la tesi di Mastrocola: contro la nota denuncia di don Milani – che bacchettava una scuola media incline a usare la bocciatura come un’arma delle classi alte contro le classi basse – è individuato il punto di rottura: è il 2000, l’anno in cui, con Luigi Berlinguer ministro dell’istruzione “la scuola diventava un’impresa, si agganciava al mondo del lavoro, o meglio, tentava goffamente di assumere i valori e i criteri della produzione e del mercato”.
Per realizzare questo disegno, dicono gli Autori, dal 2000 l’istruzione – dalle elementari all’università – diventa permissiva, abbassa i criteri della valutazione, bandisce la parafrasi, le poesie a memoria, i riassunti e i brutti voti. È così che la scuola ha allargato tragicamente la distanza tra ceti benestanti e ceti svantaggiati. E lo ha fatto danneggiando la mobilità sociale con l’inibire la meritocrazia e l’emancipazione.
In altre parole, la scuola troppo indulgente non funziona. Perché chi ci guadagna è colui che ha una famiglia colta o capace di sostenere le spese per un’istruzione privata (ripetizioni incluse).
Inutile dire che gli Autori sono stati accusati di essere conservatori, reazionari e passatisti, contrari a una scuola dell’inclusione, democratica ed egualitaria. Ma lungo questa dimostrazione, Ricolfi disegna un’ipotesi molto stimolante. Nella sua ricerca, divide l’Italia in cinque zone e scopre che il parametro della meritocrazia (che favorisce l’accesso a posizioni socio economiche elevate per avere frequentato una scuola di valore) è quasi annullato in zone a prima vista del tutto diverse: il Sud ad alta densità mafiosa (Calabria, Sicilia, Napoli, Caserta) e la Zona rossa (Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche). Sarà un caso ma, spiega Ricolfi, ciò che accomuna queste zone è il regime clientelare.
Quindi la meritocrazia misura l’effetto di un’istruzione di qualità sul funzionamento dell’ascensore sociale, sul grado di emancipazione e di mobilità. Ed ecco che, nelle zone in cui la meritocrazia non è compromessa da un regime clientelare, l’indice di successo individuale aumenta in rapporto all’aver frequentato una scuola buona (buona secondo i criteri degli autori).
A parte le osservazioni socio pedagogiche, storiche e didattiche su cui si può essere più o meno d’accordo, la dimostrazione – articolata e complessa – filerebbe non fosse per alcuni fatti: per prima cosa, gli autori non dicono perché ciò accada.
Ricolfi, in questa sua laboriosa indagine, si è fondato sui dati forniti dall’Istat e dai test Invalsi. L’Istat non si tocca, e all’inefficacia (se non alla nocività) dei test Invalsi – affermata da anni di critiche – Ricolfi risponde che hanno una sola utilità: quella di confrontare scuole e non soggetti e, quindi, individuare la qualità media dell’istruzione provinciale.
Per questo motivo, nel momento in cui gli Autori criticano l’attuale scuola italiana come facile e di bassa qualità, come consegnata alla logica aziendale e sottratta alla cultura umanistica, possono non sbagliare completamente la diagnosi, ma rimangono all’interno di una logica prettamente nazionale e non considerano altre ragioni.
E da qui muove la seconda riserva: vi sono cause di più ampio respiro che hanno spinto i governi italiani di vario colore alle scelte che hanno provocato il danno. Vale a dire le politiche economiche dell’Unione Europea, condizionate fin da Maastricht dalla pressione dei grandi gruppi industriali che hanno trovato l’antidoto alla crisi del lavoro e del mercato europeo: governare il sistema scolastico e fare degli studenti una classe di lavoratori mobili, efficienti e obbedienti. La severa e recente reazione dello Stato di fronte alle manifestazioni studentesche dimostra questa volontà.
Non è per salvare Luigi Berlinguer, ma già nel 1997 Confindustria auspica che, attraverso l’alternanza scuola lavoro, la cultura d’impresa diventi un soggetto educante e determini – come sta accadendo – il futuro dell’istruzione italiana. E lo fa sollecitata e anticipata dal Libro Bianco della UE in cui nel 1995, Édith Cresson – commissaria europea con delega a scienza, ricerca e sviluppo – ricorda che l’impresa è ormai un’importante produttrice di conoscenze e di nuove competenze. Il che causa, nei paesi della UE, l’abbassamento qualitativo e quantitativo dell’istruzione tradizionale.
Sembra chiaro a chi risalgano le origini del danno scolastico e come Luigi Berlinguer e i ministri dell’istruzione dei governi Prodi, Berlusconi, Monti e Renzi siano stati esecutori di una strategia che, non potendo svalutare la moneta, ha svalutato studenti e lavoratori.